Non così presto, non così facile. La Macedonia ancora lontana. Le condizioni metereologiche continuano a mettere il bastone fra le ruote, oltre tutto le strade sono spesso ridotte male… male! Ritorno a dove ero rimasto. Eravamo a Skoder, la notte si avvicinava, abbiamo conosciuto dei ragazzi che parlavano italiano e ci hanno offerto ancora birra e rekya, partiamo alla ricerca di un posto dove passare la notte, verso la spiaggia. E’ già notte, troviamo un posto tranquillo sulla spiaggia davanti a dei complessi turistici, fuori stagione. Approfittiamo dei tavoli del bar, il barista parla più o meno italiano, resta con noi a chiacchierare. Mettiamo le tende, la musica dal bar è esagerata, il tipo se ne va e la lascia accesa… sulla stessa canzone, infinite volte si ripete ‘je t’aime’ di qualche malvoluta cantante francese. Spostiamo la tenda un po’ più in là, ma verso le ore non so che, arriva il vento, incessante, e fa partire la cappa esterna della tenda. Momento di nervoso estremo, quando spostando tutto troviamo un angolo più o meno buono, uno della sicurezza con kalasnikov e la sua faccia da pesce osserva dietro l’angolo. Un grido di rabbia contenuto al tono di bestemmia, quello se ne va. Si tranquillizza la situazione. Mattina ci si prepara con calma, solita indefinita quantità di caffè, e si riparte.
Direzione la montagna. Burrel. Dalla costa le montagne albanesi del nord sembrano una muraglia, non incoraggiano, non sembrano dare il benvenuto; oltretutto la coscienza di entrare in uno dei posti più esclusi d’Europa su cui gravitano storie ed esperienze alcune eccezionali altre disastrose, non dà nessuna sicurezza sull’avvenire più prossimo.
Si ripassa da Skoder, strade sconquassate, spennellate di asfalto e buchi. Ricomincia a piovere. Qualche chilometro e si vira verso est, la valle di fronte, verso i monti. Buffet al coperto di un bar. Piove e non smette. Una piccola folla di marmocchi ci bombarda di attenzione.
Le prime pedalate, fredde e umide, lasciamo il posto al ritmo costante di polmoni e cuore. Mi fa incazzare il tempo. Solo il Sylvan il “Re Leone” sembra vedere il sole, tutto sorridente durante un breve stop sotto un riparo.
Si sale lentamente, a un certo punto quasi piacevolmente, la salita è soave e il corpo caldo. Un lago che risalendo diventa piano piano un fiume sotto di noi. La pioggia diminuisce, va e viene. Si scollina, si arriva all’altipiano collinoso di Burrel. Primo bar, si fa tappa, mizzi patocchi! Ripartiamo, ma la sera è vicina. Passiamo in un paese, a Burrel non ci si arriva se non ci si vuole distruggere. Chiediamo informazioni o ospitalità per accamparci, ma non si parla più italiano, solo albanese, non come sulla costa. E noi non sappiamo nessuna parola utile. Un ragazzo mi dice di aspettare chiama al telefono e una voce in italiano. Sono “costretto” ad accettare, Alice non è molto in forze. Ci ospiterà lui, offrendoci doccia e fornelli e un posto dove mettere i nostri sacchi a pelo. Un missionario bresciano, devo dirlo, veramente tranquillo. Non si parla di religione, ma di Albania. Dell’albanese, che non lo capiscono nemmeno i turchi, e apprendiamo le basi per comunicare nei giorni a seguire. Mir , gesuar per brindare, ska problem, che per dire sì si fa no con la testa e per no invece si.
La mattina seguente si riparte con qualche spiraglio ingannatore di sole. Stiamo pensando di dividerci, io e Alice, dagli altri due per via dei ritmi, condizioni e obbiettivi differenti di viaggio. Ma giusto il tempo di una discesa tra i colli, dell’altopiano poco piano, e alla salita successiva, al curvare della strada ritroviamo e li ritoviamo tutti e due fermi.
Una donna anziana segnata dallo scorrere degli anni e da una vita semplice ma non facile, spinta da una bambina dall’espressione timida e interessata, fermano le nostre pedalate e programmi della giornata e ci ritroviamo tutti quanti ospiti di una famiglia di una semplice e profonda umanità. Restiamo con loro per tutta la giornata. Entriamo in una bolla di umanità difficile da trovare alla quale ci si abitua con estrema semplicità. I giorni seguenti ci mancherà tutto ciò.
Un divano, una stufa in mezzo a una piccola stanza, non ci si capisce molto, ma ci si comprende molto. Soprattutto con le bambine, noi motivo di illusione e felicità per loro e quindi per tutta la famiglia. Ambra la più piccola cieca è attratta dalla musica e dal ritmo. Ci mostrano foto di altri come noi, passati di lì per caso. Sembrano folletti, quando scorlano la testa per dire sì.
Facciamo un piccolo sforzo, raggiungiamo la piccola città, Burrel, tranne Alice, raffreddata, che rimane entrando più a fondo in un’atmosfera tradizionale in cui accarezzerà alcuni limiti o differenze nei ruoli. In città la gente non è molto abituata a vedere gente da fuori come noi, e ovunque ci fermiamo ci si forma gente attorno. `Wat`afuk iu do in Albania?“si sente chiedere Pierre, sublime espressione che meglio riassume il tutto. Torniamo portando caffè, arance e cose per ricambiare l’ospitalità, anche se per nulla richiesto.
Uno spiraglio di sole illumina le colline. E` uno spettacolo. Facciamo compagnia durante la mungitura delle micromucche nella ministalla di legno, mi si passa il telefono e parlo con un figlio dei vecchi che abita a Genova. Comincia a diventare un’abitudine parlare al telefono con sconosciuti solo per essere italoparlante. La sera ci offono carne, loro mangiando fagioli.
Il giorno dopo la bambina è triste. Gli mancherà la compagnia di musica e rumore. Ripartiamo. Saluti e rimaniamo in due.
Tag:15 aprile 2012